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In fisica viene riconosciuto con il nome di effetto fotovoltaico il fenomeno che permette la produzione di energia ai pannelli fotovoltaici mediante la luce del sole. Un procedimento oggi perfettamente chiaro, frutto però di osservazioni e studi che hanno almeno due secoli di storia. Parlare di storia del fotovoltaico vuol dire però parlare della luce che nell'Ottocento si prende il centro della scena, tra scienza, arte e fotografia.
La dagherrotipia è il procedimento per cui la luce con vapori di iodio riesce a imprimere un’immagine su una lastra di rame. È la luce che prende forma, tangibile, su una lastra. La dagherrotipia ha cambiato il nostro mondo, in tempi rapidi. Basti sapere che dalla sua diffusione alla sua progressiva scomparsa - negli anni Sessanta dell’Ottocento - passarono circa tre decenni in cui il mondo imparò ad innamorarsi della fotografia. Il 1839 viene ricordato proprio come l’anno in cui la dagherrotipia debuttò ufficialmente in società grazie a una storica presentazione dello scienziato François Arago presso l'Académie des Sciences e l'Académie des Beaux Arts di Parigi. Dalla Francia la tecnica si diffuse in tutto il mondo in pochi mesi: nello stesso 1839, anno di grazia per l’utilizzo della luce, il dagherrotipo viene presentato anche a Firenze e in Spagna e importato in America, mentre a Torino viene realizzato quello che può essere ritenuto il primo apparecchio fotografico italiano. Il 1839 viene ricordato come l’anno che secondo alcuni decretò la fine dell’arte ad opera della luce. Ma per molti - e furono quelli a cui la storia diede ragione - fu l’anno in cui la luce cambiò per sempre la storia dell’arte aprendo ad orizzonti inaspettati. Fu anche l’anno in cui la luce cambiò per sempre il modo di vedere l’energia e la scienza.
A Parigi Antoine Cesar Becquerel è già uno studioso di caratura internazionale, membro da oltre un decennio dell’Académie des Sciences e medaglia Copley della Royal Society, la maggiore istituzione scientifica dell’epoca. Becquerel si è formato all’École polytechnique di Parigi nel periodo napoleonico, ha vissuto la fine dell’Illuminismo, i primi vagiti della Rivoluzione industriale e la grande spinta scientifica dell’Ottocento. Antoine Cesar Becquerel è, come molti uomini della sua epoca, un intellettuale a tutto tondo, studia l’elettricità, l’elettrolisi e la pila. Si appassiona al magnetismo (in particolare al diamagnetismo) e studia a fondo l’effetto termoelettrico. Nel 1839 mentre osserva, insieme al figlio Alexandre-Edmond (che gli succederà all’Académie des Sciences), il passaggio di corrente tra due lamine di metallo immerse in una soluzione di cloruro dello stesso metallo, si accorge che la corrente aumenta se una delle due lamine è colpita dalle radiazioni solari mentre l’altra è in ombra. I risultati dell’esperimento vengono raccolti -però solo come annotazione accessoria - in una pubblicazione “Sugli effetti elettrici della radiazione solare” pubblicata nel novembre dello stesso anno. Gli appunti di Becquerel non tracceranno in modo univoco la strada verso questo nuovo tipo di energia. Anzi, la famiglia di fisici francesi si dedicherà ad un altro tipo di energia: il nipote di Antoine, Henry, diventerà infatti celebre per i suoi studi sulla radioattività che gli valsero anche il premio Nobel.
Tuttavia l’attenzione all’effetto fotovoltaico si ritaglia uno spazio importante nella scienza dell’epoca. Pochi anni dopo Becquerel, sarà un giovanissimo scienziato italiano, Antonio Pacinotti, già inventore della dinamo e grande appassionato di fotografia, a osservare e studiare lo stesso effetto. Non si parla, però, ancora di effetto fotoelettrico in quanto questo termine sarà impiegato solo alcuni anni dopo da un altro scienziato italiano, allievo di Pacinotti, Augusto Righi. Nel 1867 sarà lo statunitense Willoughby Smith a studiare il passaggio di corrente attraverso il selenio, aprendo così le porte allo sviluppo del fotovoltaico.
La storia del fotovoltaico procede a tappe serrate con scienziati e inventori che se ne occupano in tutte le parti del mondo. Negli anni Settanta dell'Ottocento due scienziati inglesi W. G. Adams e R. E. Day dimostrano scientificamente la possibilità di generare corrente elettrica con una barretta di selenio sfruttando solo la luce. Una intuizione resa realtà dal lavoro di Charles Fritts che nel 1883 realizzò il primo dispositivo solido capace di convertire la luce solare in elettricità. Fu, in pratica, la prima cella solare, realizzata unendo una lastra di selenio, una di oro e una lamina di rame. L'intenzione di Fritts era quella di trasformare questo dispositivo sperimentale in un vero e proprio generatore di corrente. Per farlo si rivolse anche ai massimi esperti dell'epoca Werner von Siemens e James Clerk Maxwell che, pur riconoscendo la bontà dell'esperimento, non riuscirono a spiegare l'effetto fotoelettrico così generato. Chi ci sarebbe riuscito a vent'anni di distanza, nel 1883 era ancora un bambino, capace però di meravigliarsi di fronte alla bussola tascabile di suo padre e alle forze che nello spazio vuoto spostavano l'ago. Il suo nome era Albert Einstein.
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